È tornato in libreria con Il fiore perduto dello sciamano di K, e oggi Davide Morosinotto ci regala una pagina del diario di viaggio che ha tenuto durante il suo viaggio in Amazzonia.
Diario di viaggio – 27 aprile, Iquitos
Io e Laura ci svegliamo alle 6.30 dopo una notte dormita male, tra zanzare, caldo e gente in festa che ha cantato ininterrottamente sotto le nostre finestre dalle dieci fino a mattino. Facciamo colazione con un succo di maracuja poi ci cambiamo secondo le istruzioni che ci ha dato Lizardo ieri (vestiti tecnici, scarpe comode, acqua e anti-zanzare) e lo raggiungiamo al garage dove tiene le mountainbike. Ci obbliga anche a indossare dei caschetti, e mi sembra strano dato che qua tutti vanno in moto senza, ma tant’è. Il primo tratto in bici è cittadino, da Iquitos fino al porto di Bellavista Nanay. Una volta lì scopriamo che c’è un mercato, perciò dobbiamo scendere dalle bici e farci largo tra i venditori, che stendono le loro merci su teli per terra tra le baracche.
Vedo: frutta strana, molti pesci e gente che li sventra in mezzo alla strada, polli crudi squartati, vermi ancora vivi grossi come un pollice che saltano nelle ciotole (poi vengono presi e infilati in spiedini da fare alla brace). C’è una folla mai vista, tutti spingono, parlano, c’è musica, e l’odore mi disgusta, è acidulo, di appunto pollo crudo lasciato al caldo troppo tempo. Lizardo indica una pila di animali morti lasciati uno sull’altro sul cemento e spiega che quelli sono animali della selva, cacciati illegalmente nelle riserve e portati al mercato per essere venduti. Per queste persone sono un’importante fonte di proteine e vitamine, dato che la selva offre cacciagione, pesca, molta frutta, ma pochissime verdure. Ci avventuriamo tra passerelle di legno e imbarchiamo le bici su una canoa coperta, stretta e lunga, piena di popolo del fiume che ha finito i suoi affari in città e torna a casa.
Appena la barca si stacca dal pontile il disgusto per il mercato se ne va, arriva il vento e… il Rio delle Amazzoni. È così grande che non capisco il senso in cui scorre, sembra il mare. Le acque sono di colore diverso nel punto in cui un affluente < cercare il nome> si fonde con il rio principale. Sulla barca la gente guarda me e Laura con curiosità, sorride. Tocchiamo terra e adesso siamo nella Selva, credo di non avere mai visto tanti alberi. Non c’è un pontile, solo qualche baracca arrampicata sulla salita. Trasportiamo le bici a spalla fino in cima alla collina (pensavo fosse piatto… è tutto un saliscendi) poi ci mettiamo a pedalare. Attraversiamo il villaggio di Santa Clotilde, una decina di capanne di legno e lamiera sul pendio. Non c’è acqua corrente né elettricità, in compenso i colori sono accesi come se Dio avesse impostato il filtro fotografico dei tropici su super-vivido. Dopo Santa Clotilde siamo nella giungla, a me pare fittissima ma Lizardo spiega che in realtà quella è solo “foresta secondaria”, colonizzata e abitata. La “foresta primaria”, incontaminata, si trova a molti giorni di viaggio nell’interno.
Proseguiamo un paio d’ore fino ad arrivare alla casa di Fernando Fonseca, un poeta che si è ritirato a vivere nella Selva. Sotto una tettoia, una donna sfarina la yuca nell’acqua, mentre un uomo la cuoce sule braci per renderla farina croccante vera e propria. Ci sono due bambini, Valerio e Ailena. Fonseca è scalzo, in camicia, barba bianca e pelle arrostita dal sole. La casa dove ci accoglie è stata costruita da suo padre. Lui ha viaggiato in giro per il mondo, poi è tornato qui per allontanarsi dalla civiltà. Il suo unico svago sono i libri che legge e scrive, di notte, alla luce di una lampada a a cherosene. Non avendo la corrente, non ha neanche il telefono. Mangia quello che gli dà la foresta, prende l’acqua da una quebrada qui vicino. Laura gli chiede come si cura, lui risponde che anche per quello usa la foresta e le sue piante, e poi può chiedere aiuto a un suo amico: Mariano, uno sciamano, un brujo. Io sono sudato perso, lui mi parla di stelle e di amicizia. Il grande sogno di Fonseca è di costruire una biblioteca lì, nella foresta. Dice che le persone hanno bisogno di leggere, soprattutto i bambini, e la sera non c’è niente da fare. Ci porta a vedere il punto dove vuole costruirla, nel folto della giungla. È convinto che una volta finita ci verrà molta gente e che sia una cosa importante. Anche io, e prometto di aiutarlo. Fonseca ci invita a pranzo preparandoci uno strano bibitone di yuca, acqua, lime e zucchero. Io e Laura siamo un po’ preoccupati per l’acqua, ma Lizardo dice che dovrebbe essere bollita e poi non possiamo offendere. Beviamo.
Ci rimettiamo in bici e ci addentriamo nella foresta fino al “villaggio” successivo dove Lizardo saluta un vecchietto con un mazzo di chiavi al collo e le Converse (?). È Mariano, il brujo, lo stregone di cui ci parlava Fonseca. Accetta di parlare con noi e ci invita sotto il portico della sua capanna. C’è un’amaca che penzola e capisco che quella di Fonseca dev’essere una villa extra-lusso, da queste parti. Cominciamo con le domande a cui risponde volentieri <vedi registratore>. Racconta che una volta aveva un’anaconda come animale da compagnia, e che a volte poteva trasformarsi nel serpente e andare in giro col suo corpo per spaventare i vicini. Spero che parli in senso spirituale. Poi una pattuglia di militari un giorno ha trovato l’anaconda e l’ha uccisa per mangiarsela. Lui si è molto offeso, più che altro perché non gliene hanno dato neanche un pezzetto. Quando salutiamo Mariano siamo stanchissimi ma ci aspetta ancora parecchia strada.
Rimontiamo in bici e arriviamo a una lupuna, un albero immenso che ha più di 300 anni (cosa sempre più rara, spiega Lizardo, perché questi alberi sono molto ricercati per il legno). Proseguiamo ancora fino a uno splendido mirador, un’impalcatura di legno di tre piani che permette una vista mozzafiato sul rio delle Amazzoni. È gestito da una comunità indigena. Saliamo fino in cima, poi con Lizardo compriamo un cocco che una signora scoperchia con il machete e ci offre con una cannuccia per bere. Siamo distrutti e si è fatto molto tardi, e tutta la strada che abbiamo fatto ci aspetta per il ritorno, per fortuna Lizardo conosce una scorciatoia che permette di risparmiare qualche salita. Quando rimontiamo in barca io sono in condizioni disperate, coperto di fango, perciò durante il viaggio mi tolgo le scarpe e le sciacquo nel fiume. Mi sento quasi Indiana Jones. Adesso siamo in albergo stravolti. Forse tra un po’ aperitivo con Cayo Vasquez, lo scrittore che inseguo da mesi e che dovrebbe darmi molte informazioni utili per il libro.